Ho visto Birdman. Mi è piaciuto.
Cercherò di spiegare perché senza troppi sproloqui.
BIRDMAN È INNANZITUTTO UN BEL FILM, TECNICAMENTE PARLANDO.
Un piano sequenza di due ore – non se ne vedevano di così ben digeribili dai tempi di Nodo alla gola del mio amato Hitchcock -, ellissi temporali di altissimo livello, una colonna sonora memorabile, una gestione dell’onirico che entrerà nei libri di storia del cinema.
Una costruzione filmica capace di mantenere la barriera dello schermo alta quanto basta per farci vedere dall’altro lato senza toccare necessariamente l’immedesimazione.
COSA LO RENDE UN FILM DA OSCAR?
Parla di qualcosa di vero, concreto, molto vicino alla nostra vita quotidiana: la voglia di dimostrare che siamo molto più di ciò che appariamo. La necessità di raccontare un’altra storia su di noi, che sappia tirare fuori i lati nascosti, la profondità del nostro essere, la caratteristica che più di tutte ci contraddistingue in un determinato lasso di tempo. Nonostante quello che gli altri pensano di noi.
I sessant’anni sono i nuovi trenta! – Riggan Thomson (Michael Keaton)
Quella stessa voglia di metterci in gioco, di trasformarci restando noi stessi e di farci, per questo, accettare dagli altri per ciò che siamo (o crediamo di essere) veramente. Il gioco di ellissi temporali che lo compone permette una non catarsi nella catarsi, capace di separarci dal protagonista e dal mondo semi immaginario in cui vive e di lasciare scorrere di fianco a noi la sua storia: non per giudicarla, ma per poterne capire i punti cardine che lo rendono un percorso realistico e, perciò, credibile. Vicino allo spettatore.
QUESTIONI DI ATTUALITÀ.
Il film, inoltre, mette in piedi una riflessione molto interessante che coinvolge non solo il mondo del cinema d’oggi, ma anche quello della società in cui viviamo. Racconta il significato moderno di due termini: fama e bravura.
Se la bravura è di per sè un talento, la fama è un fardello che bisogna essere bravi a trasportare. Chi ha fama deve dimostrare continuamente di essere bravo e nel momento in cui ci sarà riuscito, ma decidesse di uscire dal seminato, rischierà di dover ricominciare tutto da capo.
Tu non sei un attore, sei una celebrità – Tabitha (Lindsay Duncan)
Per di più, la bravura si sviluppa su livelli differenti che mettono in gioco un altro fattore: il confronto. Quello con gli altri, quello con i precedenti sé e quello con il vero sé. Quel confronto in grado di indebolire la forza di quello stesso talento. Il protagonista di Birdman, nel suo delirio onirico, lotta continuamente all’interno di tutti questi confronti e ne esce in qualche modo vincitore nel finale: aperto all’interpretazione personale del pubblico in sala.
Ma Birdman non è un film psicologico, quanto invece un film che mette in scena la vita e decide di farlo tramite la metafora del teatro.
NON SOLO SUPEREROI.
Viviamo nell’era in cui la Marvel sforna un film all’anno, tanto da aver annunciato (tramite il proprio profilo Instagram) tutte le date di uscita dei prossimi film da qui al 2019 e la DC Comics crea sempre nuove serie tv sui personaggi dei suoi fumetti. L’era in cui i supereroi sono tornati ad essere dei simboli, non solo per nerd appassionati di fumetti. Abbiamo imparato a dare un nome ai volti che mettono in scena quei supereroi e a giudicarne l’operato anche quando non vestono quei panni.
Il protagonista di Birdman vive, in modo traumatico, la sua vita post-supereroica: vuole dimostrare di essere di più di un tizio con le ali da uccello che salva il mondo, dimenticando che per gli spettatori è lui l’eroe, proprio perché incarna un simbolo. Invece di accettare questo status simbolo e conviverci pacificamente però, Riggan Thomson cerca di combatterlo, rifiutandolo, fino a perdere se stesso.
I supereroi non sono fatti per sminuirci, ma per ricordarci che siamo umani.
UN FILM SOCIAL.
Sì, mi è piaciuto anche per questo (e non solo perché la presenza social del film è di gran classe). Nella sua eterna lotta per dimostrare (soprattutto a se stesso) che è molto di più di quello che gli altri credono, il protagonista si imbatte nella realtà dei fatti: non importa quanto tu voglia dimostrare chi sei, saranno gli altri a determinare come il mondo ti vede. E se non fai attenzione, il mondo ti vedrà in un mutande.
Il suo percorso all’interno del film è in qualche modo un’allegoria della società moderna: quella in cui sono le condivisioni e gli interessi che manifesti a determinare chi sei e cosa rappresenti, la stessa dove le generazioni devono continuamente ridiscutere i propri ruoli a causa della divisione tecnologica che le separa. La società in cui tutto è mediato dai mezzi di comunicazione, anche gli aspetti più profondi della propria vita. Quegli stessi aspetti di cui – spesso – andiamo fieri o che ci complicano le cose, ma che ci rendono sempre veri, umani.
Avrei tanto voluto non aver fatto le riprese della sua nascita perché mi sono perso quel momento.
Non l’ho vissuto. Io avrei dovuto stare là con voi due: solo noi tre…
Ma non l’ho fatto. Non sono presente neanche nella mia vita, non l’ho vissuta…!
– Riggan Thomson (Michael Keaton)
Birdman è un flusso di coscienza reso palese, piacevole e capace di provocare una leggera vertigine (anche per il modo in cui è girato).
Come dice Matteo Bordone, nella sua recensione del film su Internazionale, Birdman fa parte (grazie al suo regista) di quel filone di film che sta tra Europa e Hollywood, quei film d’autore capaci di convivere con le leggi del mercato americano. Quel tipo di film che chi ama il cinema, non può perdersi.