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Questo articolo è una trascrizione, leggermente rivista della puntata del podcast “Segni” intitolata “Talenti Serpenti”, che puoi ascoltare qui

Lo scorso week end sono andata al cinema con mio figlio Leonardo di tre anni: siamo andati a vedere “Encanto”, il sessantesimo lungometraggio Disney-Pixar uscito nella sale il 24 novembre 2021.  La storia di “Encanto”, si basa sul concetto di talento: i protagonisti sono i membri di una famiglia che si ritrova piena di talenti magici, ognuno diverso e straordinario. 

Il concetto di talento in “Encanto” 

Ogni membro della famiglia è dotato di un solo talento speciale: c’è chi solleva macigni come Hulk, chi può prendere le sembianze di altre persone, una delle sorelle della protagonista crea fiori dal nulla, mentre la mamma cura qualsiasi male o problema fisico con il cibo che cucina. 

E poi, c’è la protagonista, che si chiama Mirabèl, che è un po’ come un brutto anatroccolo perché, al contrario di tutti i suoi parenti, non ha nessun talento.  

L’evoluzione della storia di “Encanto” (senza spoiler) si basa su due questioni:

  • la riprova sociale dell’avere o meno un talento 
  • le dinamiche e le aspettative di tipo familiare che dipendono dal possesso di un talento 

Avere un talento a tutti i costi

La visione del film ha prodotto in me una riflessione sulla questione del talento e di come esso viene visto all’interno della nostra società. 

L’ipotesi di dover avere per forza un talento mi sta stretta: per anni è stata un freno alla libera espressione di me, della mia creatività e del mio essere me al 100%. Per anni, infatti, in quanto creativa, prima per indole e poi di mestiere, ho cercato abbastanza invano quello che fosse il mio talento con la T maiuscola, fino a convincermi di non averne nessuno, di non essere realmente brava in niente, anche a causa del confronto con altre persone che ritenevo più talentuose di me. 

Molti anni e un po’ di psicoterapia dopo, mi è evidente che in realtà ci sono un tot di cose che so fare, anche bene (quindi non solo una): mi viene riconosciuto dagli altri, ma soprattutto me lo riconosco io. 
Ma lo scollamento che sentivo prima di maturare questa consapevolezza è dovuta all’assunto di base che mi rendeva cieca di fronte alla realtà dei fatti: mi ponevo un obiettivo sbagliato. 

La narrazione sociale che facciamo del talento mi aveva portata a pensare che avere un talento fosse una qualità obbligatoria per essere felice. Ma “essere felici” e “avere un talento” sono due cose molto diverse fra di loro, afferiscono a due sfere del vivere differenti: essere felici fa parte dell’universo del sentire e delle emozioni, mentre avere talento è sostanzialmente un costrutto sociale che si basa sulla riconoscibilità del nostro valore da parte dell’altro da noi. 

Non mi serve un talento per essere felice e non sempre chi ne ha uno ne guadagna in felicità, altrimenti, non si spiegherebbero le morti precoci e tragiche di tantissimi artisti che riteniamo essere talentuosi (Janis Joplin, AMy Winehouse, Jimi Hendrix e tanti altri non passati alla storia). 

I motivi storici dell’ossesione per il talento 

Di recente, tra le mie letture serali, ho trovato qualcosa che ci può aiutare a dare una risposta alla domanda: da dove arriva questa necessità di assegnare a tutti i costi un talento alle persone? Da quando riteniamo che essere geniali ci elevi a essere umani di serie A (almeno finché non ci deludono)?  Parliamo senz’altro di una risposta parziale, ma voglio condividerla con voi. 

Nel suo libro “Big magic”, Elizabeth Gilbert (l’autrice di “Mangia, Prega, Ama”) affronta la tematica della nascita di un’idea. Lei crede che le idee siano entità che esistono indipendentemente da noi, che vagano nel mondo e nel tempo per trovare colui o colei che le porterà alla vita nel miglior modo possibile. 
Nel raccontare il suo punto di vista sulla questione, la Gilbert parla anche del proprio rapporto con le idee e della traduzione delle stesse in scrittura (visto che questo è il suo mestiere). 
La Gilbert ci racconta della fatica dello scrittore, ma anche di quei momenti in cui, come se fosse su un tapis roulant all’interno di un aeroporto, si sente sospinta da una forza esterna che la aiuta a portare avanti la scrittura. 

Lei pensa che a sospingerla sia un qualcuno, che lei identifica con qualcosa di molto simile al “genio”, nell’accezione usata da Greci e Romani: il demone della creatività, una sorta di folletto che vive tra le mura di casa e a volte dava una mano nelle faccende. 
Il potere di questa credenza, ormai perduta, è che nel suo essere esterno da noi, il genio tiene sotto controllo il nostro fragilissimo Ego, proteggendolo, prendendo al contempo le distanze dal narcisismo. 

Le cose sono cambiate con il Rinascimento, quando siamo passati da avere un genio a essere un genio, aumentando così la pressione e la fragilità degli artisti, che da semplici esseri umani sono improvvisamente diventati responsabili dei capricci dell’ispirazione (cit.). La genialità è stata trasformata in un metro di misura delle performance. E il talento è diventato un metro di misura di tutte le cose della vita, non solo nel campo artistico/creativo. 

La Gilbert riporta anche l’esempio di Harper Lee, l’autrice de “Il buio oltre la siepe” che dopo il grande successo del suo best seller mondiale non ha più scritto né pubblicato niente per paura di “perdere la faccia” (concetto derivante dalla sociologia). 
In una sua intervista Harper Lee dichiarò: “Sono arrivata in vetta e una volta che si arriva in vetta c’è solo una direzione che si può prendere”. Il timore della Lee era di essere giudicata sul proprio lavoro, di non essere più ritenuta in grado di scrivere, di essere accusata di aver perso il talento (o di non averlo mai avuto) e per questo ha smesso di fare quello che le piaceva. 

Vi sembra giusto? A me no. 

I danni della società della performance

L’imposizione sociale che determina il nostro successo presso gli altri in base alle nostre performance e ai nostri talenti è diffusa in tutte le sfere della nostra vita, rischiando di danneggiarle tutte. 

Vi faccio un esempio.  
Da quando sono diventata madre mi scontro ogni giorno con le difficoltà (molte assolutamente inaspettate dalla me di prima) della genitorialità. Ma mi scontro anche con una narrazione sociale in cui non mi riconosco: quella in cui le madri, di default, hanno un talento innato, che va sotto il cappello di istinto materno
Secondo questa narrazione, l’istinto materno compare nelle donne in due momenti: quando scoprono di essere incinte oppure quando vedono per la prima volta il loro bambino. La realtà dei fatti è che non è così, perché diventare madri o padri è un processo che spesso dura molti anni e nessuna madre che io conosca, ha sentito di essere in grado di affrontare tutto quello che significa la maternità al giorno 2 di vita del proprio bambino. 

Anche la maternità quindi viene raccontata come una performance, che nello scontro con la realtà rischia di generare ansie e angosce con cui può anche essere molto difficile convivere. 

Per approfondire questi temi vi rimando al grandissimo lavoro di Natalia Levinte.

Il permesso scritto

Per concludere vi cito alcuni brevi paragrafi del libro della Gilbert e vi invito ad ascoltare la lettura completa della stessa all’interno della prima puntata del mio podcast di cui questo articolo è un riassunto.

Non vi serve il permesso scritto di nessuno per vivere una vita creativa.
[…]

Gli esseri umani sono esseri creativi da molto tempo, anzi da così tanto tempo e così ostinatamente che il nostro lo si direbbe un impulso totalmente naturale. […] le testimonianze più antiche di forme d’arte umana datano a quarantamila anni fa. Le prime testimonianze di coltivazione della terra, invece, solo a diecimila. […] nel corso della nostra storia evolutiva abbiamo deciso che fosse di gran lunga più importante fare cose belle e superflue che imparare a nutrirci con regolarità.
[…]

Lasciate che l’ispirazione vi conduca dove vuole. Ricordate che nel corso della storia le persone hanno più che altro realizzato cose senza farne una questione di stato.

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